Valentino Andrich
In un cantuccio di una squallida baracca nel campo di Dehra Dun (India) stavo laboriosamente ingrandendo una minuscola carta geografica dell’India. Attorno a me rumori assordanti di POW (Prigionieri di Guerra); che andavano avanti e indietro senza meta, come uccelli in gabbia. In effetti eravamo tutti uccelli in gabbia, perché prigionieri: chi con la faccia triste e desolata, chi con una grinta dura.
Ad un tratto me ne passa uno accanto e sbircia quello che sto facendo: “Anche tu hai questa idea? – mi dice – siamo in cinque o sei che pensiamo di tagliare la corda da questo maledetto reticolato. Così maturo l’idea della fuga da Derha Dun, dove eravamo chiusi in campo di concentramento.
Da Derha Dun al confine con l’Afghanistan, paese allora neutrale, c’erano circa 1000 Km. Per accedervi bisognava valicare il passo di Karachi, sorvegliato da un battaglione di Gurkha, i feroci guerrieri nepalesi al soldo dell’impero britannico. Camminando sempre ad est e percorrendo le pendici dei monti a mezza costa, si poteva raggiungere Karachi. Questo i nostro pazzesco programma! Ma la gioventù è incosciente, possiede forza, sente il fascino dell’avventura, è attratta dal rischio. Tutto ciò noi lo possedevamo. Così ebbe luogo il primo contatto tra noi sette: tutti ragazzi atletici, reduci di prima linea del fronte dell’Africa settentrionale.
Punto Baracca
La nostra baracca-dormitorio era lunga circa 80 m. e larga 15 m., col lato minore di fronte al reticolato alla distanza di circa 10 metri; al di là del reticolato vi erano corridoi di ronda, cavalli di frisia, per una profondità di circa 7 metri; nel corridoio camminavano sentinelle indiane con la baionetta innestata; ogni tanto una garitta di osservazione munita di fari riflettori; a distanza di circa 60 metri, la foresta, che frontalmente alla testata della baracca presentava uno spazio avvallato. Era l’ideale per sboccare là con una galleria e poi tagliare la corda. Così all’interno del Campo si iniziarono le nostre rudimentali operazioni di rilievo. Con una squadra zoppa, da noi costruita, si misurarono gli angoli che formavano quel punto, prendendo da base la testata della baracca, la cui larghezza misurata ci permise di costruire sulla carta un triangolo, di cui erano noti un lato con i suoi due angoli adiacenti. Ottenemmo così, graficamente, la distanza e la direzione del punto di uscita che si voleva. I nostri calcoli si dimostrarono di seguito esatti.
Il materiale
Ora c’era il problema del deposito del materiale di risulta dello scavo della galleria. Davanti alla nostra baracca si stavano costruendo gli orti per la semina della verdura. Accumulando di giorno la terra vegetale, da spargere e stendere sopra quella fuori dallo scavo del tunnel, si poteva ottenere una perfetta mascheratura del materiale sospetto. E così si fece.
Lo scavo
Una notte di dicembre del 1942, si iniziò questo lavoro, dopo l’ultimo controllo serale da parte degli inglesi. Sulla testata della baracca vi era un caminetto, incassato nel muro, per il riscaldamento invernale. Il pozzo si attaccò dal ceneraio di quel pavimento. Si costruì un chiusino di cemento del tutto uguale a quello del focolare e un sotto-chiusino in legno, pieno di terra, di appoggio al primo, in modo che, battendo da sopra, non ai sentisse il vuoto sottostante. Dopo aver ottenuto l’impegno da tutti componenti la baracca sul segreto più assoluto di quello che si stava facendo, si iniziò lo scavo del pozzo. Per oltre un metro si incontrò un misto di sabbia e ghiaia, poi un robusto banco di argilla compatta e si raggiunse la quota di 4 metri dal piano di campagna. Da questo fondo attaccammo la galleria, formata da uno stretto tunnel con il cielo sagomato a cuspide. Un ventilatore, rubato in infermeria, ci alimentava l’aria durante il lavoro. Questa l’organizzazione del lavoro: uno scavava la galleria; due, dal fondo del pozzo, tiravano lo slittino carico di materiale e lo mettevano su un bidone; due tiravano su e portavano all’esterno il materiale; due lo spargevano sull’orto e lo coprivano di terra vegetale.
Il lavoro durò quasi tre mesi. A un certo punto, secondo i nostri calcoli, avremmo dovuto essere arrivati sulla verticale dello spiazzo in cui si intendeva uscire. Si cominciò a questo punto a salire, sempre scavando da sotto con un andamento un po’ inclinato. Restavano da scavare solo una cinquantina di centimetri.
La fuga
Fu scelta una notte buia, senza luna. Si tirarono a sorte i turni di uscita. Si formarono i gruppi e tutti con itinerari un po’ diversi. Erano tre: un capitano con i suoi subalterni; un piemontese con un nizzardo, vecchi amici di guerra; io e Valentino Dall’Asta, di Venàs di Cadore. Io appartenevo al secondo turno. Ebbe inizio l’evasione. Col mio amico uscii verso le ore una e trenta di notte.
Ostacolo: ronde esterne al campo: Se quelle ti avessero beccato nel raggio di azione di 100 metri, avrebbero avuto la consegna di farti secco sul posto. Uscito da sotto terra feci una breve corsa fino alla radura del bosco; appena in tempo, poiché sentivo già il passo ferrato della ronda che si avvicinava. Mi accucciai. La ronda non mi scorse e passò oltre. Dopo un quarto d’ora di attesa mi raggiunse il compagno.
Nella foresta
Insieme si iniziò la marcia nella foresta. Camminammo spediti tutta la notte, tra acquitrini, erbe ed alberi. Verso l’alba, stanchi da morire, ci buttammo sotto ai cespugli, su un letto di foglie, noncuranti dei numerosi animali, anche velenosi, che circolavano nella foresta. Riprendemmo la marcia all’alba. Avanti nel bosco ci infilammo ad un certo punto in un canyon e non riuscivano più ad uscirne. Finalmente verso sera scorgemmo uno spiazzo cespuglioso. Lo raggiungemmo, e così avanti per altri cinque giorni.
La sete
Ma i viveri di scorta stavano per finire: soprattutto l’acqua. La sete cominciò a farsi sentire, sempre più insistente, sempre più tormentosa. In quelle condizioni si andò avanti ancora un giorno. Chi non ha provato non lo sa: la sete, io ve lo so dire, è una cosa spaventosa, terrificante. Verso sera, col volto allucinato, avevo perduto pure la parola; vedevo acqua dappertutto. Camminavamo barcollando.
Acqua e rane
Ci imbattemmo verso tarda sera in un giovane indiano. Fu la nostra fortuna. Vedo ancora adesso l’espressione dolorosa con cui ci guardò. Dovevamo avere un aspetto molto malinconico. “Pani, pani!” (Acqua, acqua!) uscì come un rantolo dalla nostra ugola. Il giovinetto ci portò in fondo ad un burrone, dove zampillava dell’acqua in mezzo ad una pozzanghera di rane. Per noi era l’oro. Ci fermammo in quel posto un paio di giorni, bevendo dell’acqua, friggendo rane (le rane fritte sono molto appetitose), e programmando sul da farsi. All’alba del terzo giorno riprendemmo la marcia ad est, dopo aver fatte abbondante rifornimento di acqua e di rane fritte. Nei giorni successivi attraversammo valli, ruscelli, ancora boschi. Verso il dodicesimo giorno ci imbattemmo in un bungalow, una specie di casetta residenziale.
Lapidazione
Il mio compagno, che parlava molto bene l’inglese, andò in perlustrazione e ritornò dopo circa mezz’ora con la seguente notizia: quella residenza apparteneva a un indiano, che era stato anche in Italia, come capitano, durante la guerra 1915-18. Egli aveva informato che gli inglesi avevano diramato a mezzo radio, un comunicato, che un gruppo di POW era fuggito al campo di concentramento e che su loro pendeva una taglia, ammonendo altresì gli indiani di non porgere alcun aiuto sotto minaccia di punizione. Di conseguenza aveva congedato in tutta fretta il mio amico.
Cadeva la sera e perciò ci preparammo a dormire. Ad una certa ora della notte si sentì un gran fracasso. Gettavano pietroni dappertutto, e noi zitti sotto un cespuglio. Dicevano: “venite fuori amici, che vi diamo da mangiare”. Ci volevano catturare. Questo me lo riferiva l’amico, che conosceva un po’ di lingua indostana. Dopo circa un’oretta, non riuscendo ad individuarci, cessò quel fracasso s la gente si allontanò. Il mattino prestissimo ci allontanammo da quel posto. Avanti ancora per alcuni giorni.
La residenza del re del Nepal
Arrivammo ad un villaggio, dove, con un po’ di rupie, provvedemmo farina, riso ed altre cose. Dopo di che ci rimettemmo in cammino. Ma gli abitanti del luogo, incuriositi ed insospettiti ci vennero appresso. Allora, usando a mulinello i nostri potenti bastoni ferrati, ci liberammo da quella marmaglia.
Avanti ancora, giorni su giorni, nutrendoci soprattutto di rane. Una notte ci perdemmo in un acquitrino. Guardando verso la montagna, scorgemmo illuminata una città, di cui ora mi sfugge il nome. Sperduti in mezzo alla palude, braccati dagli uomini, perseguitati dalla fame, fummo presi da un momento di doloroso sconforto. Ma la gioventù è piena di risorse: allora avevo 28 anni, il mio collega 22.
Avanti sempre. Lungo la strada ci imbattemmo anche in una residenza del re del Nepal, ma non ottenemmo accoglienza. Un altro giorno un campo di studenti indiani, ma neppure lì evidentemente eravamo graditi. In compenso la foresta era bellissima, con una profusione di uccelli dai più disparati colori; scimmie e scimmioni facevano un grande strepitio.
Che mostri!
Una mattina, verso le cinque, stavamo percorrendo il letto asciutto di un fiumiciattolo, quando scorgemmo degli attrezzi da lavoro: badili e gravine con un piccolo vaglio; di lato una baracchetta di tavole. Ci avvicinammo e con uno spintone aprimmo la porta. C’era dentro un in indiano, probabilmente il guardiano, in dormiveglia. Al nostro apparire, tremante come una foglia, con gli occhi fuori della testa, si gettò in ginocchio ci pregò di lasciarlo in vita. Facce torve, barba incolta da 20 giorni, armati di bastoni ferrati, il nostro aspetto doveva ben sembrare sinistro. Al venticinquesimo giorno arrivammo nei pressi di una cittadina, dove era in corso il mercato: nelle bancarelle vendevano latte bollito, ciambelle ed altro. Ordinammo due tazze e inghiottimmo con grande ingordigia latte e ciambelle, dopo giorni e giorni di alimentazione a rane. La nostra visita, intanto, aveva dato subito nell’occhio a qualcuno. Ci incamminammo verso la stazione ferroviaria, con l’intenzione di tentare il percorso in treno.
Lo spione
In quel mentre si affiancò a noi un ometto con una bicicletta, petulante e ossessivamente curioso: lo fiutammo subito per uno spione. Presolo per la collottola, lo apostrofammo: “Vedi quel fosso d’acqua? Hai un minuto per sparire, altrimenti ti buttiamo dentro”. Non se lo fece dire due volte e scappò via di corsa. Proseguimmo il nostro cammino. Dopo circa un quarto d’ora scoppiò un uragano tipico di quelle zone e noi ci rifugiammo in un pagliaio abbandonato.
Alt: polizia
Dopo circa mezz’ora comparvero due uomini, che, scoperte le spalline, si rivelarono essere poliziotti. Ci intimarono di seguirli. Le loro proporzioni fisiche erano molto inferiori alle nostre e non sembravano neanche armati: quindi si poteva avere il sopravvento. Ma poi? Per noi vigeva la legge marziale di guerra, cioè la fucilazione.
Li seguimmo. Ci portarono davanti ad un ispettore di polizia indiano: un sikh che portava un enorme barbone nero e teneva sotto il mento un grande fazzoletto. “Chissà perché porta quel fazzoletto?” – mi fa l’amico. “Avrà mal di denti” – rispondo io. Al che Valentino, rivolgendosi all’ispettore in inglese: “Avete mal di denti?”. Costui ebbe un sobbalzo e ci rispose con una grande ghigna. Nel contesto della religione indù, i sikh, nobili di casta, non si possono togliere neanche un pelo.
La schermaglia a parole tra Valentino e l’ispettore durò una buona mezzora. Il mio amico raccontava un sacco di balle, e cioè che noi eravamo olandesi, profughi di Sumatra, rifugiatisi in India. L’ispettore, imperturbabile, richiedeva carte e documenti che naturalmente noi non possedevamo. Alla fine, Valentino si arrese e confessò. “L’avevo capito subito – disse l’ispettore – Lo sapete che su di voi pende una taglia per chi vi cattura? Da molti giorni la radio inglese diffonde questo comunicato.
Al campo
Verso sera capitò una camionetta inglese a prelevarci: dopo un giorno ed una notte eravamo di nuovo al campo di Derha Dun. Qui finì la nostra avventura di uomini fuggiaschi ma liberi. Il nostro vagolare randagio per la foresta era durato quasi un mese. Arrivati al campo, l’Intelligence Service ci fece spogliare e così, in costume adamitico, assistemmo al palpare centimetro per centimetro i nostri indumenti. Poi il processo e la condanna a un mese di galabus, ossia una cella di 2,00 x 2,50 metri con un tavolaccio per dormire.
In galabus mi ammalai di enterocolite; un medico ungherese, appartenente alle truppe alleate inglesi, mi visitò e mi fece ricoverare all’ospedale, scortato da una sentinella con baionetta innestata, poiché chi fugge era considerato elemento pericoloso e da guardare a vista. All’ospedale incontrai ufficiali medici italiani della Croce Rossa che mi trattarono molto bene. Se non che, verso sera, arrivò un capitano medico inglese: “Questo è un elemento pericoloso – disse – e deve essere isolato e guardato a vista”. Così mi portarono in un capannone, dove non c’era nessuno e guardato giorno e notte da una sentinella, sempre alle calcagna.
Quando finii di scontare la condanna era il Venerdì Santo del 1943. Rividi in galabus i tre colleghi appartenenti ad uno dei gruppi evasi dal tunnel. Gli altri due erano ancora uccelli di bosco, ma furono catturati qualche giorno dopo. Non ho più avuto loro notizie. Il mio amico Valentino, invece, lo ritrovai a Bolzano dopo 27 anni, e una seconda volta venne a farmi visita nell’estate del 1984 nella mia casa di Vallada. Ora siamo entrambi nonni.
La prima parte dell’articolo (dall’inizio fino al paragrafo “Lapidazione”) fu pubblicata su l’Amico del Popolo del 2/2/1985 con titolo “In fuga da Derha Dun, India” e sottotitolo “Due bellunesi in campo di concentramento: usata la classica idea del tunnel scavato di notte. Sete atroce e vagabondaggio nella foresta. Direzione: Afghanistan”.
La seconda parte fu pubblicata su l’Amico del Popolo del 9/2/1985 con titolo “Facce torve e barba da 20 giorni, poi ciambelle, dopo giorni di rane!” e sottotitolo “Il tutto finì in ‘galabus’. Respinti dalla residenza del re del Nepal. L’ispettore di polizia Sikh con un enorme fazzoletto da mal di denti”.
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