Dagli ozi di Capua al deserto libico

Valentino Andrich

Avevo da poco tempo ultimato il servizio militare a Udine quando venni mobilitato per l’Africa Orientale. Si era verso la fine del lontano 1936. Avevo allora 22 anni. Fui inviato dapprima a Roma, presso l’8° Reggimento Genio, dove rimasi per circa un mese, poi a Capua, dove si concentravano tutti i partenti per l’Africa Orientale.

Capua era una volta una cittadina romana, poi patria di Ettore Fieramosca. Esistono tuttora le vestigie del suo vecchio castello, trasformato al presente in albergo. Sorge su una piatta pianura, sede di zanzare. Unica industria all’epoca era lo spolettificio militare con tutte le polveriere annesse. Pesanti i massicci palazzi, vecchi e trascurati sui fianchi del corso principale.

Clima difficile

Arrivai là insieme ad alcuni colleghi. Il mio primo impatto con quegli ambienti fu pessimo. Dapprima il clima, veramente contrario alla mia radice di montanaro: un’afa sempre umidiccia, che faceva respirare male, il corpo sempre attaccato agli indumenti; strade sporche e mal tenute; gente con grinte dure, trascurata nel vestire. La miseria aleggiava su quegli abitanti. Dunque, giunto a Capua presi servizio alla caserma Gianelli: un rudere di caserma. Là confluivano masse di soldati richiamati, che andavano fino all’età di 35 anni.

Un uomo debole ed uno farabutto

Fui destinato alla terza compagnia, comandata da un capitano di 45-48 anni circa, uomo debole nel corpo, soprattutto nello spirito. Dico così perché si faceva influenzare da tutto e da tutti. Aveva alle spalle anche una vita coniugale piuttosto tragica. Io ero tra i tre ufficiali subalterni, nonostante l’età.

Iniziai il servizio in caserma, ma soprattutto al poligono, dove si facevano esercitazioni tecniche vertenti in particolari sui lavori stradali.

Ogni tanto faceva capolino un sottotenente, fresco di grado, di circa quarant’anni. Prima doveva essere stato un sottufficiale della guerra 15-18. Portava gli occhiali. Assai largo di spalle, sul viso balenavano due occhi di persona losca. Un giorno il mio capitano partì per una breve licenza ed essendo il sottoscritto il più anziano dei subalterni, mi passò le consegne del reparto.

Quel sottotenente con gli occhiali, faceva frequenti puntate, trafficava in caserma, sempre addosso ai rifornimenti alimentari: dalla carne, al caffè, alla verdura. L’uomo era tagliato per quel genere di cose, e non si fermava neppure di fronte alle più ambigue. Era di una astuzia consumata: corrompeva tutto; sapeva coinvolgere la gente e spostava chi tentava di sbarrargli la strada. In sostanza, era un farabutto di classe.

Un giorno mi scontrai con costui. Avvenne dopo la partenza del capitano. Frequentò con più assiduità di prima il mio reparto. Assediava il mio furiere, che era un uomo bravo e onesto. Ficcava il naso in ogni cosa. Un giorno non ci vidi più. Con il mio carattere impulsivo, presi l’individuo per il bavero e lo buttai fuori, giù per le scale. Mentre si aggiustava la giacca, con ampi segni di mano, mi fece: “questa me l’attacco al dito”. Da quel giorno non lo vidi più avvicinarsi al mio reparto.

Dopo breve tempo, tornò dalla licenza il capitano e riprese il comando.

In partenza senza… partire

E avanti così tutti i giorni, con le solite istruzioni. Venne un’estate così torrida che faceva ansimare. Per l’Africa non si partiva mai.

Nel contempo giunsero da Roma dei telegrammi: si cercava tra noi uno che volesse andare all’oasi di Cufra, quale direttore dei lavori. Si attribuiva questo pomposo termine a chi era messo a capo di un pugno di indigeni per tenere sgombre le piste dalla sabbia del deserto, che il ghibli costantemente trasportava. Un secondo telegramma richiedeva un topografo per l’Africa Orientale, al quale aderì un collega perugino.

Ci dissero di tenerci pronti, poiché l’ordine (che mai non venne) poteva capitare da un momento all’altro. Ci misero liberi da ogni impegno di servizio. Così ogni mattina mi alzavo assai tardi. Facevo solo atto di presenza in caserma, poi via per i fatti miei. Trascorrevo la giornata in ozio forzato, bighellonavo per. Capua, sempre con la valigia chiusa e pronta ad ogni evento.

Un perugino d’oro

All’epoca strinsi amicizia con il perugino, quello destinato topografo in Africa Orientale. Costui, di un anno più giovane di me, era un uomo stravagante, strambo, ma ingegnosissimo e pieno di talento. Allora era geometra, più tardi divenne ingegnere. Mi raccontava che da studente si rinchiudeva in camera sua e che per otto, dieci giorni non voleva vedere nessuno. Durante tutto quel tempo si faceva calare le vivande dalla sua povera madre, con un cestino dal piano superiore. Dopo aver trascorso la “quarantena” ritornava tra i comuni mortali.  Era completamente sano di mente, ma faceva tali cose per stravaganza, per eccentricità. In fondo era buono, molto onesto e generoso. Aveva due mani veramente d’oro.

Ricordo che una volta a Capua volle costruirsi un paio di stivali: riuscirono veramente eccellenti. Un’altra volta, una giacca di grido che un sarto non sarebbe riuscito a fare meglio. Nella sua professione era un fine progettista formidabile. Ma quando non gli andava non gli andava: buttava tutto all’aria e nessuno più riusciva a smuoverlo.

Ozio e cognac

Questo amico aveva però anche un vizio: tendeva al cognac e perciò era molto intemperante. Mi dichiarò una volta, mentre prestava servizio militare a Roma, in un sol giorno aveva buttato giù una quarantina di bicchieri. Non so se celiasse: sta di fatto che trincava sodo.

Dunque, si faceva solo atto di presenza, una volta al giorno, alla caserma Fieramosca, dove risiedeva un battaglione di permanenti comandato da un ottimo maggiore.

Il progetto

L’ottimo maggiore di Capua, un certo giorno convocò a rapporto tutti i suoi ufficiali, perciò anche noi due. Disse che bisognava fare le manovre coi quadri. Ad ogni gruppetto assegnò un tema, poi dette piena libertà e una settimana di tempo per risolvere la questione. Il mio amico ed io dovevamo studiare un forte in cima ad un monte, distante da noi circa 8 km.

L’amico in quel tempo era in letargo e anch’io dormivo parecchio. Venne l’ultimo giorno per la consegna del lavoro. Io cominciavo ad innervosirmi e lui non si decideva ad uscire dal letargo. Alle quattro del pomeriggio bisognava consegnare il malloppo. L’amico mi arrivò in camera verso l’una e mezza le io ero disperato.

Si avvicinò alla finestra aperta, mi indicò il colle e disse: «è semplice, dammi carta e matita». Porsi a lui gli oggetti richiesti e si mise all’opera. Guardò ripetutamente quella cima e tracciò con fine maestria alcune curve di livello, poi segnò sopra due sezioni; quindi, lo spaccato. Mi pregò di dettargli gli spessori ed io, con il manuale del Genio alla mano, lo feci.  «Ecco, il lavoro è fatto» disse. Dopo di che si rannicchiò sul mio sofà e cadde ancora in letargo. A tergo dl questo ipotetico forte, sulla carta topografica in scala 1: 25.000, io ricavai una strada militare, con pendenza e raggi di curvatura secondo il manuale, feci poi una relazione. Alle ore quattro consegnammo il lavoro ultimato.

Si ebbe un rapporto per la discussione dei nostri lavori. Il maggiore si aggiustò gli occhiali a pince-nez e incominciò ad analizzare i vari elaborati. Incominciò a dire: «Roba da chiodi, un salumaio avrebbe fatto meglio! Che cosa sono questi sgorbi?›› E giù critiche a non finire. Era il progetto di tre sottotenenti.

Poi attaccò un altro gruppo strapazzando tutti. Io guardavo l’amico pieno di apprensione. Finalmente venne il nostro turno. “Ecco un lavoro fatto da veri tecnici” esclamò. E giù lodi a non finire. Guardai il mio collega. Quel giorno aveva bevuto meno bicchierini del solito.

Stava venendo l’autunno e noi sempre incollati a Capua, con valigie chiuse, pronti per partire e gli stivali che ammuffivano, dentro.  Passò altro tempo. Finalmente, verso la fine di ottobre o i primi di novembre arrivarono a S. Maria Vetere dei contingenti di truppa, con i quali formare una compagnia destinata alla Libia. Il mio collega ed io eravamo i superstiti per l’Africa Orientale, e mai partiti; perciò, ci misero in questo reparto di nuova formazione, con destinazione Libia. Vennero ancora degli ufficiali di prima nomina e alcuni sottufficiali con cui si completò il reparto: 300 uomini in tutto.

Il viaggio in nave

Verso i primi di novembre la compagnia era pronta. Facemmo un po’ di istruzione a questi soldati. Ero il più, anziano dei sottotenenti e presi il comando.

Verso la metà di novembre si partì per Napoli per l’imbarco. Avevo allora 23 anni. Il capitano comandante sarebbe arrivato in un secondo tempo. Si prese la nave passeggeri Giuseppe Garibaldi. Si viaggiò molto tranquilli. Sulla nave c’erano anche maestre di scuola che andavano ad insegnare a Tripoli, con le quali si strinse amicizia. C’era pure un maltese, uomo sulla quarantina che divenne mio amico. Scesi con lui a Siracusa, durante la breve sosta della nave, e bighellonai per la città. Lui, che conosceva molto bene il luogo, mi portò in varie chiese, tra le quali nella magnifica basilica della Madonna di Siracusa. Ricordo che, mentre si camminava, teneva costantemente la pipa in bocca e nei caffè voleva sempre pagare lui; doveva essere molto ricco.

Giunti a Malta scesi ancora con quest’uomo che mi portò a casa sua. Aveva una bella villa alla Valletta (porto di Malta), mi presento alla moglie e al figlio. Prendemmo il thè con tutta la sua famiglia riunita. Mi congedai da questo gentile e distinto signore e ripresi la mia nave con la quale raggiunsi Tripoli.

Tripoli bella

Tripoli è bella! Si affaccia sul mare Mediterraneo. Un’oasi di palmeti ridenti, tutta linda, bianca, pulita, piena di sole. La vecchia canzone che dice «Tripoli, bel suol amore» è proprio indovinata. Nuovissimo il corso Sicilia, costruito in perfetta linea diritta, che dal mare va a Porta Gargares, via larghissima, con tutti i palazzi bianchi, messi a nuovo sia a destra che a sinistra, con palme e aiuole lungo i marciapiedi. Era una vera delizia percorrere quella contrada. Quasi perpendicolarmente a questa correva il Suck el Turch. Un’altra caratteristica era via Araba, coperta in alto da un’enorme arcata e a destra e a sinistra una costellazione di negozi dove vendevano un po’ di tutto: perle, chimoni, tappeti orientali. Bar di tutti i tipi e fogge, con una tenue musica che veniva incessante dall’alto delle arcate.

Ci accampammo a 4 km da Tripoli, alla Busetta, vicino alla rede reggimentale; per la quarta sponda, si era allora nel tempo di clima ideale. Dopo una settimana, arrivò il capitano, a cui passai le consegne del reparto.

Il tizio losco di Capua

Venne Natale, passò l’inverno, fece capolino la primavera: sempre avanti al solito tran-tran. In un certo giorno, caso volle che mi imbattessi in quel tizio losco di Capua. Non sospettavo neppure lontanamente che fosse a due passi da me. Come al solito anche là si era impossessato del timone di tutti i rifornimenti. Mi diede un’occhiata di traverso alla quale io risposi con la stessa misura.

A quel tempo io ero imprudente a parlare: un viziaccio da ragazzino ingenuo. Chiacchieravo con i colleghi, dicevo pane al pane e vino al vino. Sparlavo di quel tizio e dicevo quello che aveva fatto a Capua e aggiungevo che al presente faceva lo stesso mestiere… non so se mi spiego. Infatti, anche da noi il bilancino di controllo spesa era sparito. Fatto sta che inavvertitamente mi tirai addosso una valanga: incominciarono a perseguitarmi. Da principio non mi era chiara la provenienza. Andò a finire che mi rifugiai presso le compagnie lavoratrici che operavano nel deserto e con le quali stetti un paio d’anni un po’ tranquillo.

Il mio straparlare fu raccolto però da qualcuno in alto, molto in alto. Questo voleva vederci chiaro. Fatto sta che verso il settembre del 1940 fu ordinata un’inchiesta presso quel reggimento. L’esito fu breve ma efficace. Vi fu chi venne arrestato, tra cui quel tizio, ed altri furono spazzati via.

Si profilava all’orizzonte, nel frattempo, lo spettro della guerra.

La prima parte dell’articolo (dall’inizio fino al paragrafo “Ozio e cognac”) fu pubblicata su l’Amico del Popolo del 18/1/1981 con titolo “Dagli ozi di Capua al deserto libico” e sottotitolo “Troppo tempo in attesa di ordini nella caserma Fieramosca, tra un comandante debole e un figuro che rubava nel settore rifornimenti – Ozio sistematico per lunghi periodi”.
La seconda parte fu pubblicata su l’Amico del Popolo del 25/1/1981 con titolo “Progetto-farsa per un forte, normali avventure a Tripoli” e sottotitolo “Inutile trasloco con triste attesa, senza saperlo, della seconda guerra mondiale – Arresto dell’ufficiale avventuriero di Capua – Sorprendente amicizia con un maltese”.
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